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Il clown

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Una decina di giorni fa è accaduto, in sordina, un piccolo evento politico mascherato da altro. È uscito Quando cade l’acrobata, entrano i clown, l’ultimo libro di Walter Veltroni. Come recita la quarta di copertina: ex-direttore dell’Unità, ex-vicepresidente del consiglio, ex-sindaco di Roma, ex-segretario dei Ds, ex-segretario del Pd, ex-candidato premier. Ma come spesso accade per la produzione veltroniana, il libro non è un saggio di analisi sociale né un memoir sull’esperienza di sindaco a Roma né un pamphlet sulla crisi della sinistra. La quarta di copertina dichiara invece che siamo di fronte a un monologo teatrale (l’argomento è la tragedia dell’Heysel, lo stadio belga dove nel 1985 morirono trentanove tifosi nella finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool). Ma anche la definizione di monologo teatrale è leggermente fuorviante se uno sfoglia il libro, che è in realtà è un poemetto di circa cento stanze di quattro cinque versi sciolti ognuno, con le maiuscole a ogni a capo.
Poesia, insomma. Il primo libro di poesia di Walter Veltroni. Il quale ha incarnato, oltre i vari ruoli politici ricordati, anche quelli dell’autore poliedrico: critico cinematografico e musicale, curatore di libri disparati, biografo, romanziere. E adesso, come se la cava come poeta? Che stile usa per confrontarsi con questa dolorosa vicenda di venticinque anni fa: una partita di calcio che non venne interrotta né oscurata alla televisione nonostante si fosse trasformata in un massacro?

Veltroni s’impegna, cerca di rendere onore ai morti calcando sul registro lirico, fa leva sul senso di empatia che questo trauma collettivo ha suscitato. Ma se anche l’intenzione può essere lodevole, il risultato è purtroppo penoso. Penoso che vuol dire: imbarazzante, stra-retorico, incomprensibile, ridicolo. Un versificare adolescenziale, ingolfato, bolso che associato al nome Walter Veltroni crea un involontario risultato comico; quando non grottesco, trattandosi di morti a cui rendere omaggio.
Ci sono immagini come questa: Da quel giorno alla parola giocare si trova, come sinonimo, morire. / Un mondo che non è capace di giocare è condannato all’infelicità. / E alla violenza. / Quella che ruba la vita e prende a bottigliate il futuro. Ci sono versi in cui l’andatura prosastica diventa un po’ insostenibile: Boniek tocca a Paolo Rossi ma la palla è oscurata da un sei. / 0636911-399707-3960781-3962772 / Migliaia di matite, migliaia di fogli di carta, sono volati in quella notte di mano in mano /Nelle case degli italiani che avevano ascoltato la voce sicura di Bruno Pizzul. Ci sono associazioni presuntamente suggestive ma francamente difficili da decifrare: Cominciano a volare degli oggetti. / Sono aste di bandiere, anacronistici ombrelli. Ci sono versi icastici che stentano a non risultare caricaturali: Il dolore, viene proclamato verso la fine, non è un ciao.
L’effetto generale è quello di un libro di poesia de Kipli, le poesie che Corrado Guzzanti leggeva ad Avanzi vent’anni fa; una poesia parodica, che si serve degli stilemi poetici per fare altro. Purtroppo però qui l’autore è in buona fede: vuole affabulare e commuovere. Ma come già era accaduto in altri libri di Veltroni, il peso del contenuto drammatico non compensa l’assoluto deficit dello stile. Perché effettivamente lo scrittore Veltroni non è uno scrittore leggero, anzi nella sua opera si racconta spesso di morti: dei desaparecidos in Senza Patricio, dei morti del terrorismo nella Scoperta dell’alba, dei morti per consunzione nel Disco del mondo, breve vita di Luca Flores, musicista. Il suo afflato memorialistico, luttuoso, si nutre di un lessico tutto virato al lirico, all’allusivo, al metaforico, all’elisione. Ma gli scivoloni retorici si susseguono senza tregua, perché certo è difficile parlare dei morti, tanto più delle tragedie collettive. Come chiosava giustamente Vonnegut in calce a Mattatoio numero cinque: Cosa si può dire di intelligente su un massacro?
Ma soprattutto – è questo che si può rimproverare al Veltroni scrittore – rendere omaggio a chi è scomparso non ci dovrebbe esimere dal compito di fare i conti con chi che è rimasto, invece. Occorre parlare dei feriti, occuparsi dei feriti a morte; come urlava Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli nella sua Lectura Dantis dedicata ai superstiti della strage della stazione di Bologna nel 1981.
Ma il dato più significativo è quello che questo libro cela: la tanatofilia letteraria veltroniana occulta una più seria responsabilità, quella politica. Veltroni, come ricorda la sua non breve biografia, ha ricevuto negli ultimi anni diversi mandati – a sindaco di Roma, a leader democratico, a leader dell’opposizione; mandati di cui nel momento della sconfitta si è disfatto, senza un rigo di elaborazione personale sul significato di questo fallimento.
Ora, sarebbe auspicabile che sia giunto il tempo di confrontarsi con quello che gli chiedono i milioni di lettori che l’hanno votato: un’elaborazione di questo fallimento collettivo recente, non la rivisitazione poetica di lutti dissepolti dalla memoria. I morti dell’Heysel riposino in pace, la valle di lacrime di cui occuparsi è sotto gli occhi.


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