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Il Berlinguer di Veltroni. Ovvero come l’ossessione della memoria ci rende prigionieri del passato.

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Questo articolo è uscito su Europa.

Credo di essere, senza tema di smentita, la persona che più conosce e più si è occupata della produzione di Veltroni come intellettuale e artista. Lo seguo da quando faceva il direttore dell’Unità e scriveva recensioni cinematografiche per il Venerdì. Ho letto quasi tutti i suoi libri di narrativa e di poesia, ne ho parlato in modo molto diffuso e molto critico – l’ho fatto l’ultima volta qui e prima qui, e qui, e ancora qui, e ne ho fatto anche un bilancio, di questo rapporto critico. Ne ho parlato sempre abbastanza se non molto male, ma quest’attenzione non è stata determinata da un capriccioso desiderio di inanellare stroncature contro un politico di nome, ma da una ragione spero più utile: cercare di riconoscere in controluce nella produzione artistica una filigrana esplicitamente politica, più nitida delle sue stesse dichiarazioni reperibili in un’intervista, in un discorso o in una campagna elettorale. Quando si è saputo che usciva il primo film di Veltroni regista, mi sono sentito in dovere di vederlo e di analizzarlo; lo faccio ora con un mese di ritardo.

Il primo film di Veltroni, lo sapete bene, è un documentario su Berlinguer. Inizia con una carrellata di interviste a persone (soprattutto ragazzi) di varia provenienza sociale, politica, che abitano i luoghi che furono significativi nella vita dell’ex-segretario Pci (da Sassari a Roma), a cui viene chiesto semplicemente: Chi era Enrico Berlinguer? Dalle risposte scomposte si ricava 1) la rappresentazione di un Paese Reale polarizzato tra la schizofrenia e l’ignoranza, e – implicitamente dunque – 2 ) la necessità di raccontare la vicenda biografica e politica di un uomo che uno potrebbe presumere sia stato talmente centrale nella storia italiana – il suo funerale con milioni di persone in piazza – da essere indimenticabile, e che invece pare appartenere a un pantheon di eroi dall’identità smarrita. Il documentario è composto di molto archivio, interviste a una dozzina di personaggi (Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Aldo Tortorella, Jovanotti, Bianca Berlinguer, Pietro Ingrao, Sergio Segre, Michail Gorbacev, Emanuele Macaluso, Claudio Signorile, Alberto Franceschini, l’ambasciatore Usa in Italia negli anni ’70-’80, l’autista Alberto Menichelli, e un operaio che lo vide agonizzare), il tutto è contrappuntato da notazioni personali di Veltroni.

Molte delle cose che avevo pensato sulla poetica veltroniana – e sulla sua assoluta rilevanza nei termini dell’immaginario collettivo della sinistra italiana – mi si sono confermate, mentre altre mi si sono chiarite. Dal punto vista tecnico e quindi estetico, il documentario Quando c’era Berlinguer è decisamente migliore di qualunque libro che Veltroni abbia scritto. Ci sono dei momenti molto belli – il montaggio di documenti video la cui la semplice visione al cinema è un’esperienza toccante (i tre minuti dell’ultimo discorso di Berlinguer a Padova: il suo volto in primissimo piano mentre si toglie e si rinfila gli occhiali, ha conati di vomito, suda, si ingobbisce, continua a parlare cercando di non interrompersi); la scelta di intervistare a lungo due non-politici (l’autista che lo accompagnò per gli ultimi quindi anni e il capo del consiglio operaio padovano che vide la scena dell’agonia durante il comizio); i titoli di coda con le immagini senza sonoro del dibattito dei registi (Scola, Lizzani, Gregoretti, Maselli…) che girarono il documentario del funerale… – e ci sono dei momenti molto brutti: la scena collocata all’inizio in cui dopo le immagini di repertorio del funerale, con un artificiosissimo bianco e nero, la camera fa un dolly su una piazza San Giovanni dove volano prime pagine dell’Unità con il volto di Berlinguer è un esempio; o la trashata di mettere una dimenticabile canzone di Gino Paoli inedita come sottofondo sonoro di nuovo alle immagini finali del funerale…

Ma, come dicevo, c’è una dimensione più abissata che si può portare in superficie da un film che in realtà verticale non vuole essere, ed è una lettura che lo metta in relazione alle altre opere di Veltroni. Come quasi tutto quello che Veltroni ha raccontato nei romanzi, anche questo documentario è un omaggio a un morto. In precedenza Veltroni si era occupato, per esempio, in Senza Patricio, Quando l’acrobata cade entrano i clown, L’inizio del buio, La scoperta dell’alba, di desaparecidos, della strage dell’Heysel, di Alfredino Rampi, delle vittime del terrorismo: questi eventi tragici, collocati tutti tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, stavano sempre a segnare una soglia tra un mondo di felicità possibile e uno di irreversibile tragedia. Anche in questo documentario, la morte di Berlinguer viene indicata, nelle parole di quasi tutti gli intervistati e nella costruzione narrativa stessa del film, come la fine senza scampo di un’epoca, o meglio come la cacciata da un paradiso che si è rivelato poi irrimediabilmente perduto.

Per questo motivo, Quando c’era Berlinguer è, se lo si guarda con un po’ di apertura emotiva, un film straziante. La Storia si chiude con l’ultimo fotogramma, e poi il Niente. Una specie di film catastrofico senza nemmeno un mcguffin finale a insinuare una speranza, proprio come accadeva negli anni ’80.

Se lo leggiamo da questa prospettiva, risulta molto coerente l’opzione di non intervistare Achille Occhetto né nessuno di coloro che guidarono la trasformazione del Pci in Pds, come del resto è comprensibile che Occhetto o Petruccioli si siano risentiti. Lo stesso Alessandro Natta non viene nemmeno chiamato per nome ma liquidato da Tortorella come «un segretario di transizione», e quando Aldo Tortorella accusa con un certo paternalismo Veltroni e la sua generazione di non essere stati capaci di prendere il testimone di Berlinguer, il politico-regista decide evidentemente di incassare (e legittimare?) l’accusa – non replica, né taglia la scena.

Del resto le regole del gioco nella ricostruzione erano dichiarate dall’inizio nell’epitaffio che Veltroni ritaglia dal film biografico di Marcello Mastroianni Mi ricordo sì, mi ricordo: «Tutto quello che hai visto, ricordalo, perché tutto quello che dimentichi torna a volare nel vento».

La memoria è il dio di Veltroni. La sua venerazione per il passato, e la sua ossessione profonda per la questione la perdita della memoria sono tanto laceranti quanto sincere. Ne ha sempre parlato, gli va reso atto (qui una specie di elogio-manifesto scritto in occasione di una recensione al libro di Stephen Merrill Block, Io non ricordo), e anche nel documentario un paio dei passaggi più toccanti pronunciati da Berlinguer riguardano la memoria della Resistenza, per esempio.

Ma qui bisogna fare un distinguo importante per provare a capire perché il film di Veltroni lasci un sentimento di intensa nostalgia ma anche di angoscia invece di essere liberatorio.

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